giovedì 8 dicembre 2011

Dicembre.

Mi ero completamente dimenticato di quelle quattro decorazioni natalizie sfigate che ho in giro per casa, primo tra tutti l’alberello di dieci centimetri che mia madre conserva da quando facevo l’asilo, e che perde più pezzi dell’abete finto di tre metri che abbiamo a casa nostra, quello che addobbiamo soltanto davanti perché non abbiamo mai avuto abbastanza decorazioni per riempirlo per intero.

Mia madre è tutt’ora convinta che si tratti di una precisa scelta stilistica. Non le è mai piaciuto riempirlo, suppongo a causa del trauma indotto dalla rovinosa fine che fece l’alberello del ’94. 
La verità? E’ una questione di palle. In tutti i sensi. Se hai un albero di tre metri d’altezza per un metro di base non puoi aspettarti che quindici palle rosse e dieci bianche siano sufficienti. Ma la stronza è sempre stata braccino corto quindi no, «compriamo solo venticinque palline, mica lo possiamo sovraccaricare, poi diventa una cosa di cattivo gusto». Poco importa che oltre alle palle ci siano anche fiocchi, fiori e luci -anche quelli rigorosamente contati per riempire il “visibile”- assolutamente orrendi. 
Che poi, la capisco pure: chi se lo incula il lato a fianco al muro? Non se ne accorge nessuno, in fondo. Ma la questione palle rimane, perché l’albero lo devo fare io. Tutti gli anni. E mi porta via una giornata intera, quel tavolone di tre metri del cazzo. Una giornata intera per una cosa di cui non si accorgerà nessuno, tanto a casa nostra a Natale ci siamo sempre e soltanto noi. «E che ci vuole», dice mio padre. Lui fa il presepe. Nel senso che infila una spina dentro una presa, visto che il nostro presepe sta in esposizione trecentosessantacinque giorni all’anno su uno scaffale della libreria. Perché è un pezzo unico, comprato dai miei a San Gregorio Armeno durante la luna di miele. Una cosa alta cinquanta centimetri di una rara bruttezza. Ma sta sotto una campana di vetro, è un pezzo unico, pregiato. Poco importa che faccia cagare. E’ un pezzo unico.

La verità? E’ una questione di numeri. Nel senso che mi è sempre piaciuto scrivere i numeri per esteso. Eccezion fatta per il ’94. Brutta annata. In quel periodo avevamo un grazioso alberello nano, completamente sbilenco, che occupava lo spazio immediatamente attiguo alla porta d’ingresso divorandosi quel cubo di volume vitale nel resto dell’anno per una casa di quaranta metri quadri calpestabili, balconi inclusi. Quella cosa se ne stava lì per i venti giorni scarsi di periodo natalizio a sciropparsi le lodi di chiunque entrasse dentro casa. Perché mia madre, che sarà pure stronza e braccino corto aveva, con quel singolo oggetto, riscattato la totalità delle sue scelte di arredamento. Bastava lui ad abbattere drasticamente il delicato mix delle piume di pavone nel vaso di cristallo al centro del tavolo in salotto, la lampada ad olio rinascimentale blu cobalto poggiata sulla credenza e la Madonna, quella Madonna, appesa in bella mostra sulla parete del divano: una pala d’altare medievale, giunta attraverso una serie di oscuri passaggi nelle mani di mio nonno nel lontano millenovecentoqualcosa, completamente tarlata, inquietante. Quella cosa ci sovrastava in tutte le occasioni. Le mie reminiscenze catechistiche mi suggeriscono che possa essere una Madonna di Loreto, da sempre rappresentata sull’uscio della sua casa, con il bambino in braccio, mentre l’abitazione viene sollevata in volo dagli angeli. Peccato che la Madonna di mia madre, quella Madonna, non fosse affatto sull’uscio di una qualche cosa assimilabile ad un’abitazione, ma se ne stava lì, sospesa dal suo mantello nero, che la faceva sembrare un enorme pipistrello. E s’involava su uno scenario semi-apocalittico verde spento, cimiteriale. Mi faceva talmente tanta paura da farmi quasi amare quella sottospecie di Belzebù che si vede nell’ultimo pezzo di Fantasia. Lei e il suo mantello nero. Chissà se Manuel Agnelli la sa, questa cosa del mantello. Chissà che il paraculo non abbia preso ispirazione da una cosa del genere. Ma la Madonna, persino quella Madonna orrenda, veniva completamente offuscata dall’alberello di mia madre: addobbato sui toni dell’argento, ogni singola gemma, ogni singola candela era posizionata con estrema cura. Così che, chi l’avesse visto decorato, non avrebbe mai potuto pensare che quella cosa meravigliosa, quella piccola bomboniera, fosse in realtà l’abete spelacchiato che si tirava giù dal soppalco la mattina dell’otto dicembre.

Ma nel 1994, annata tremenda, quell’alberello fece una fine orrenda. Lo ritrovammo appena rientrati in casa, riverso sul pavimento. C’erano candele spezzate ovunque, le palline erano rotte in mille pezzi. Poco ci mancò che a mia madre venisse un infarto. Perché era evidente che in casa fosse entrato qualcuno, che aveva portato via un bel po’ di cose. L’avevano razziato, l’alberello, rubandosi i portacandela d’argento. Le piume di pavone, la lampada ad olio, il presepe e quella cazzo di Madonna, invece, erano rimasti esattamente al loro posto. 


Non credo di essere mai uscito pulito da quell’episodio. Che poi è il motivo per cui mi è sempre piaciuto scrivere per esteso tutti i numeri, tranne il ’94 e il 2006. Pessima annata.
La verità? E’ anche una questione di culo. L’otto dicembre del 2006 uscii per la prima volta con Annalisa. La portai in un mercatino di articoli natalizi, una di quelle stronzate finanziate con una cinquemila dalle amministrazioni comunali per giustificare in maniera pseudo-civile la presenza di qualche ambulante in più all’interno di una piazza del centro. L’idea era perfetta. Si sa che le ragazze reagiscono bene a questo genere di puttanate. Anche io reagisco bene o meglio: credevo di reagire bene. Se non altro, tutte quelle luci mi mettevano di buonumore. Più o meno. Sotto un litro di sudore freddo che mi correva giù per la schiena a causa della tensione. 

Mi piaceva Annalisa. Non era molto in mio genere, troppo fighetta. Però, insomma, era graziosa. Come l’albero di mia madre, quello del ’94. Era letteralmente entusiasta di un’idea che io avevo buttato lì, in maniera anche abbastanza annoiata. E cercava di appiopparmi vaccate di ogni genere. Una di quelle pallette con la neve finta con dentro due conigli in piedi davanti ad una chiesa. Un pupazzo a forma di tucano vestito da Babbo Natale. Roba che neanche in un autogrill della Milano-Brescia. Ma si sa come vanno queste cose: tu stai lì, fai il bravo, annuisci, le compri una mela caramellata e speri che il gesto sia valso la grazia di infilarti tra le sue gambe dopo. Lo so, è un cliché, un cliché tremendo: essere cattivi a Natale. In mia difesa, non ero partito esattamente con queste intenzioni, cioè, anche. Però, insomma, uno ci prova a fare strike al primo colpo. In realtà, adesso che ci penso, mi avrebbe fatto piacere anche se la cosa fosse rimasta ferma lì, al mercatino. Perché in fondo Annalisa era proprio bella, in mezzo a quelle luci. 

Invece no. Si avvicina a un banchetto di decorazioni per albero e presepe e sceglie quattro oggetti diversi. Mi spiega che è una tradizione della sua famiglia, quella di appendere all’albero di Natale un oggetto nuovo per ciascuno dei membri della famiglia. Ogni anno. Non male, come idea. Meglio di quella successiva: andiamo a casa mia, ti faccio vedere l’albero. Dio, che palle. Però apertura gambe molto vicina. 
L’appartamento di Annalisa era qualcosa di alienante. La sensazione che ho provato varcando la soglia è stata più o meno quella che provai la prima volta che sono entrato nel Duomo di Milano. Mi sentivo piccolo così. Sovrastato. A disagio. Assolutamente. E l’albero era solo una piccola parte di tutto quello che colpiva violentemente il mio sguardo. Enorme, con una quantità assurda di oggetti di ogni tipo e una miriade di pacchi alla base. Suppongo che la tradizione familiare fosse già allora sfociata in una forma di compulsione che avrebbe potuto facilmente condurre la famiglia a una qualunque psicosi. Tipo Shining, però con più lustrini e fiocchetti. 
Orgogliosissima, lei sciorinava gli eventi legati alla scelta di ogni singolo oggetto. Quello veniva dal Marocco, ed era di quella volta che al padre di lei avevano offerto novanta cammelli per la moglie; quell’altro era stato confezionato su misura da un artigiano bavarese; quell’altro ancora era, in realtà, una stampa del primo disegno che lei aveva fatto della sua famiglia quando aveva cinque anni. E intanto io pensavo alle scarse pretese dell’alberello del ’94. E mi veniva da vomitare.  A un certo punto, Annalisa si chinò a prendere un pacchetto azzurro: era per me, il suo regalo di Natale. Cristo. Io le avevo pagato tre euro di mela caramellata, e questa mi faceva un regalo. Pesante, consistente. Da aprirsi rigorosamente la sera della vigilia. Cazzo. 

La verità? Oltre che essere una questione di numeri e di culo, rimane sempre e soprattutto una questione di palle. E non so assolutamente che cazzo di fine avessero fatto le mie in quel momento.
Credo di avere biascicato una qualche specie di ringraziamento imbarazzato, che è una cosa che di solito mi rende anche abbastanza gradevole agli occhi delle femmine. Del dopo ho un ricordo assolutamente confuso. Credo di avere avuto un’uscita poco elegante sull’inutilità del Natale. E mi ricordo perfettamente che, quel residuo di palle che mi erano rimaste attaccate al basso ventre, m’è completamente caduto quando mi sono sentito paragonare al Grinch.

Due giorni dopo, Annalisa stava con quel coglione di Alberto.

Il regalo me lo portai a casa, e lo scartai la notte della vigilia. La mia Diana F+, che si chiama come quella stronza di Annalisa.
La prima foto che ho scattato è stata quella dell’alberello di merda di dieci centimetri. Quello dell’asilo. 
Ci stampai le cartoline per gli auguri di Natale.
Dicevano «Buon Natale da Ippolito, e da quella troia di Annalisa.»